I libici ebrei parte di una soluzione in Libia? Ne parliamo con Raphael Luzon

Di Vanessa Tomassini.
“Sono nato a Bengasi, ho vissuto in un quartiere ebraico fino a quando sono diventato un giovinetto di 12 anni. Poi nel 67 ci sono stati dei disordini anti-ebraici in seguito alla guerra tra Israele e i Paesi arabi a Tripoli e Bengasi, dove si sono verificati dei saccheggi. A Tripoli ci furono una ventina di morti tra cui la famiglia intera di mio zio, il fratello di mio padre, con la moglie e sei bambini. A fine giugno del 67 siamo stati espulsi dalla Libia, costretti a lasciare il Paese con solo una valigia. Da allora ho vissuto in Italia per quasi 28 anni dove ho frequentato il liceo, l’università, ho lavorato e ho contratto il primo matrimonio”. A parlare è Raphael Luzon, ebreo di origine libica, rappresentante della sua comunità cancellata dall’impeto distruttivo del fanatismo. Luzon si racconta senza risentimenti, aggiungendo: “Oggi da 18 anni vivo a Londra dopo essere stato per qualche anno in Israele (per i Paesi arabi occupata Palestina n.d.r.) come producer per la RAI, per cui ho organizzato l’ufficio per i corrispondenti. Ho lavorato li due o tre anni, mentre in Italia ho rappresentato delle testate giornalistiche israeliane, ed anche in Israele ho scritto per molti quotidiani italiani ed israeliani. Ora lavoro come free lance, ho pubblicato due libri, uno scritto a quattro mani insieme ad uno scrittore libico musulmano ed il secondo con la prefazione di Roberto Saviano che racconta la vicenda dei libici espulsi dalla Libia e che ha avuto un discreto successo tra il pubblico e sui media. Sono state pubblicate già la versione in italiano e in inglese, mentre le traduzioni in arabo ed ebraico sono pronte e stiamo cercando un editore adatto. Sono molto impegnato ed attivo su tutta la faccenda libica, sono stato protagonista di una visita storica in Libia dopo 40 anni su invito personale di Gheddafi e dopo la caduta del rais, avendo avuto ottimi rapporti con tutti i leaders politici del Governo di transizione di allora. Ho visitato la Libia post-rivoluzione due volte, la seconda nel 2012 quando sono stato rapito a Bengasi da una milizia islamica che mi ha tenuto prigioniero per 8 giorni. Sono stato rilasciato grazie alle pressioni della gente e del grande lavoro svolto dall’Ambasciata italiana. Ora non posso più entrare in Libia, ma ho la possibilità di incontrare eterogenei attori politici, sia internazionalmente riconosciuti come coloro dalla parte di Serraj e Maeteeq, sia dalla parte di Haftar, oltre ad esponenti di varie tribù e componenti sociali”.
Lei rappresenta anche la comunità libica ebraica in Europa, anzi ne è il presidente, giusto?
“La comunità ebraica libica nel mondo ha 4 organizzazioni, io sono presidente di una di queste, che si chiama Unione ebrei di Libia”.
Che ruolo può avere la comunità ebraica di Libia, se può averne uno, nel contenere la guerra nel Paese?
“Nel ’47 c’è stato un conflitto tra le varie tribù della Tripolitania e non riuscivano a trovare una soluzione. Alla fine si sono rivolti alla comunità ebraica di Tripoli che ha fatto da mediatrice, riuscendo a risolvere il problema. Con questo voglio dire che la crisi libica non può essere risolta né dai vari inviati dell’ONU che hanno fallito tutti, compreso Martin Kobler prima, Bernardin Leon ed oggi Ghassan Salamè, perché non capiscono la mentalità libica, non parlano il linguaggio libico, non mangiano libico e via dicendo. Ci vorrebbe assolutamente un libico che medi tra le parti per cercare una soluzione. Deve essere un libico non coinvolto nel conflitto e gli unici sono i libici della comunità ebraica di cui la maggior parte vivono in Italia, Stati Uniti, Regno Unito ed Israele. Io ho fatto questa proposta ai vari capi e devo dire loro hanno compreso. C’è da dire che i leader libici oggi sono solo delle pedine nelle mani di grandi potenze straniere per il petrolio e la ricchezza del sottosuolo del nostro Paese. O loro si liberano di questo giogo e mi sembra molto difficile o si va verso una divisione in feudi – non solo come in passato Tripolitania, Cirenaica e Fezzan – ma anche peggio con Misurata che è diventata una cosa a parte, Tripoli un’altra, Bengasi un’altra ancora, rischiando che l’unità della Libia venga distrutta, trasformandosi in un aggregato di città-Stato”.
Quanti sono i libici ebrei che sono stati costretti a lasciare la Libia?
“Fino al’48, anno in cui c’è stato il picco, si registravano circa 42mila libici di religione ebraica, di cui circa 36-37mila sono usciti tra il 1948 e il 1951, l’anno dell’indipendenza della Libia. Il 90% si sono rifugiati in Israele, un grosso numero si è fermato in Italia, mentre altri si sono stabiliti in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. I libici che si sono trasferiti in Israele hanno mantenuto lo stesso tipo di matrimonio, la stessa cucina, parlano l’arabo libico continuamente anche quelli di terza generazione e l’ultimo censimento di 2 anni fa fissa il numero di libici ebrei residenti in Israele a 117mila, 5mila in Italia e tre o quattrocento sparsi in tutto il mondo”.
A che punto siete con la compensazione delle proprietà che siete stati costretti ad abbandonare o che avete perso in Libia?
“Molte organizzazioni si sono occupate della compensazione fino ad una decina di anni fa senza ricavare un ragno dal muro. Dal 2001 io ho rovesciato il termine del sistema, facendo in modo in primo luogo che ci venga riconosciuta la nazionalità visto che siamo nati li e quindi libici a tutti gli effetti. Una volta riconosciuto questo diritto se ne può parlare. In secondo luogo io ho sempre affermato che noi non vogliamo parlare di compensazione, taewidat in arabo, noi vogliamo la restituzione dei beni sottratti in maniera illegale agli ebrei, comprese le loro proprietà, soldi in banca, negozi e case. Si tratta di restituzione, non di danni. I danni dovranno essere riconosciuti a quelle famiglie che hanno avuto dei morti uccisi nei moti del 1935, del’48 e del ‘67, l’ultimo a cui ho assistito anche io e di cui sono stato vittima. Sappiamo benissimo che la Libia oggi non è in grado di compensare nessuno, io ho detto a Gheddafi quando l’ho incontrato di essere contrario al fatto che vengano date compensazioni solo agli ebrei, ma devono essere ricompensati tutti i libici colpiti dalla dittatura, dalla guerra civile e da alcune decisioni di mal-governo del re. Ci sono vittime libiche che sono musulmane, ebraiche, ma anche cristiane: non dimentichiamo i circa 29mila italiani cacciati da Gheddafi nel ‘70”.
Abbiamo visto in passato una sua intervista con un canale arabo in cui mostrava il suo passaporto libico dell’epoca del Re Idris. Ha provato a rinnovarlo con il Governo di Accordo Nazionale?
“Ho provato a rinnovarlo, quando era scaduto nel 1970, due o tre anni dopo la nostra espulsione, e mio padre si rivolse alle ambasciate e ai diversi ambasciatori che si sono susseguiti ed ovviamente c’è stato sempre un netto rifiuto. Dopo l’uscita di scena di Gheddafi ho chiesto questo passaporto a tutti, indistintamente, a tutti i vari leader che ho incontrato, ed ho chiesto questo passaporto non perché ne abbia bisogno, perché il passaporto italiano a me basta e avanza, ma per principio. Le risposte sono sempre state positive, mi hanno sempre detto tutti sì, senza però alcun risultato. Non hanno mai messo in pratica queste promesse. Ora sembra si siano inventanti una legge che afferma che nessuno può avere il passaporto se non è iscritto al registro civile, senza avere cioè un numero nazionale. Ho chiesto il numero nazionale, ma mi è stato risposto che è ancora presto per affrontare la questione ebraica. Trattano il nostro caso come una questione extra-libica, invece i libici ebrei, cristiani e musulmani dovrebbero avere lo stesso status giuridico”.
Sappiamo che c’è una sinagoga nella medina di Tripoli e perfino un sito sacro a Cirene, l’attuale Shahat nella Montagna verde, quali sono le loro condizioni?
“Mi permetta di correggerla, a Tripoli c’erano ben 37 sinagoghe ed attualmente come rovine, come edifici ormai vuoti, si contano 7 o 8 siti ebraici, Gheddafi ha voluto ristrutturare alcune di queste. Una in particolare che ho avuto modo di visitare si chiama Dar al-Bishi, Gheddafi volle mostrarmi come fosse stata ben ristrutturata per farla divenire un bene culturale della Libia. Quando lo incontrai, io gli dissi hai fatto molto bene a ristrutturare questa sinagoga, lanciandogli la sfida di realizzare un convegno tra intellettuali arabi libici musulmani ed ebrei libici che possano discutere del passato di duemila anni e di un futuro da ricostruire. Lui accettò poi, purtroppo per l’idea, dopo qualche mese c’è stata la rivoluzione di febbraio. Ho visitato anche Homs, Zliten, Gharian e la montagna Gebel Nefusa, popolata dai berberi, che conta almeno altre 8-9 sinagoghe che mostrano ancora le strutture ebraiche”.
Come è stato accolto quando si è recato in Libia?
“Quando sono stato lì, su invito di Gheddafi, nessuno poteva nemmeno pensare di fare niente, la gente è stata molto gentile e calorosa. Mi hanno fatto vedere la mia casa natale, la scuola e tutto ciò che desideravo vedere. La volta successiva, dopo Gheddafi, a prescindere dal rapimento sono stato accolto molto molto bene. Mi hanno ricordato il fatto che io sono sempre stato attivo contro la dittatura e che il mio bisnonno, che si chiamava come me Raphael Luzon, ha combattuto al fianco di Omar el-Mokhtar e Ramadan Al Swehli a Misurata, contro i colonizzatori fascisti”.
Chi trova più cooperativo tra il Governo di Accordo Nazionale e il Governo ad Interim?
“E’ una bella gara, quando parli con loro promettono mari e monti ma non fanno nulla. Ho anche incontrato a Tunisi due importanti emissari del feldmaresciallo Khalifa Haftar. Non so cosa dirle, per me le persone più serie sono quelle che non hanno potere, appartenenti al mondo della cultura, della politica e dell’imprenditorialità che sono le prime vittime di questo arraffare soldi a destra e sinistra di tutti i governanti, sia di Tobruk che di Tripoli, che di Bengasi. È qualcosa che sto cercando disperatamente di cambiare, ma vedo che anche i più onesti quando arrivano al tavolo del Governo arraffano a destra e sinistra e dopo un anno o due se ne vanno, chi ad Abu Dhabi, chi in Turchia, a godersi le loro pensioni dorate”.
-Quindi lei ha incontrato due emissari di Haftar, ci stava dicendo?
“Sì, ha inviato due emissari a Tunisi perché anche lui era interessato ad avere buoni rapporti con la comunità ebraico-libica. Su questo oggi, almeno a parole, sono tutti d’accordo, avrebbero intenzione di ristabilire dei contatti con la comunità ebraica di Libia ed un giorno farla ritornare. Cosa che è impossibile perché dopo 50 anni ognuno si è sistemato dove sta e nessuno pensa di ritornare in Libia. I rapporti ufficiali sono cordiali, anche calorosi, ma quando si va sul concreto ci sono subito dei passi indietro”.
-Cosa ne pensa delle attuali operazioni militari a Tripoli?
“Il problema di Haftar, secondo me, è che l’altra parte è appoggiata a livello internazionale quindi non credo che nessuno possa dare luce verde ad Haftar di entrare a Tripoli finché Fayez al-Seraj è appoggiato da Italia, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. A meno che lui non sia abbastanza abile da cambiare le carte in tavola e farsi appoggiare internazionalmente, provando alle potenze straniere che solo tramite lui si possa arrivare ad una certa stabilità ed unità della Libia. Non dobbiamo dimenticarci inoltre dell’opinione pubblica che sia a Tripoli, che in Bengasi, appoggia Haftar, ma vedono con sospetto il fatto che il maresciallo sia stato con Gheddafi durante il colpo di stato del ’69, è accusato di eccidi e altri crimini durante la guerra col Chad, e come mi ha detto un mio grande amico siamo stanchi di un’altra persona in uniforme militare che comandi il Paese. Dall’altra parte ci sono personaggi di rilievo, di un certo spessore, che per paura o per mancanza di interesse non scendono in campo e restano lontano dall’arena non contribuendo”.
Abbiamo informazioni che ha forti relazioni con tutto quel mondo di ONG, associazioni ed istituzioni americane che influenzano in qualche modo le scelte del presidente Donald Trump. Ce ne parli…
“Come può vedere sul mio sito personale, sono quasi tre decenni che organizzo iniziative e congressi internazionali sul dialogo interreligioso, l’ultimo dei quali si è tenuto due anni fa, a Rodi, dove sono riuscito a far venire i ministri israeliani di origini libica, con ministri iracheni e ministri israeliani sotto lo stesso tetto. Così sono riuscito a portare ad Israele nel 1999 il Dalai Lama con una delegazione del Vaticano, e dell’Università Islamica Al Azhar. Facendo questo tipo di eventi sono in contatto con altre ONG che si occupano della stessa cosa, del dialogo tra i popoli e tra religioni. Se poi consideriamo che attualmente il presidente Trump ha il 90% dei consiglieri di origine ebraica, questo sicuramente incide. Quando ho chiesto alle varie parti libiche di poter fare qualcosa, di poterli inserire, loro sono stati entusiasti, pensando che basti premere un pulsante per entrare alla Casa Bianca. Io ho fatto capire loro che c’è bisogno di tanti capitali per poter andare a Washington, stare li un periodo, invitare a cena chi è influente e piano piano arrivare al cerchio stretto di consiglieri di Trump e cercare di influenzarli per poi invitare ufficialmente o ufficiosamente i vari personaggi. Purtroppo sono tutti accecati dalla corsa all’arraffo che quando si tratta di investire su questo tipo di operazioni scappano”.
-Ma a chi l’ha proposto? A Serraj?
“A tutti e sono anche andato giù basso. Ho detto che potevo organizzare incontri con personaggi e diplomatici che possono dare una mano a livello di lobby e di pubbliche relazioni sia in Inghilterra che in Italia, che in Francia, per poter lavorare ad una soluzione che vada bene a tutti. Tutti mi hanno detto di sì, mi hanno chiesto cosa bisogna fare? Ho detto bisogna sedersi ad un tavolo, elaborare un programma politico e diplomatico, e c’è bisogno di un finanziamento. Quando si arriva alla parola finanziamento c’è un fuggi-fuggi generale”.
Vuole aggiungere qualcosa alle nostre domande?
“No, ribadisco solamente il fatto che la soluzione alla crisi libica deve essere trovata tra i libici e non attraverso forze esterne che per un motivo o per un altro, non potrebbero giungere ad una soluzione condivisa”.