Libia. A meno di una settimana elezioni a rischio

Di Enrico Oliari, direttore “Notizie Geopolitiche”.

Nonostante le rassicurazioni del G7 e della comunità internazionale, le elezioni democratiche in Libia previste per il 24 dicembre, cioè tra meno di una settimana, continuano a non essere cosa scontata.
La sconfitta del generale Khalifa Haftar dello scorso anno infatti ha riportato alla realtà di un paese che esiste solo sulla carta, con 130 tribù che di fatto rappresentano stati nello stato, ciascuna con il proprio sistema di governo, i propri gruppi armati, il controllo del proprio territorio e i molti interessi da coltivare e da non perdere.

I vari colloqui di pace hanno messo insieme un quadro politico complesso, con un presidente del Consiglio presidenziale, Mohamed al-Menfi, e un premier ad interim, Abdul Hamid Dbeibeh, a Tripoli, ed un parlamento, cioè la Camera dei rappresentanti fuggiti dalla capitale nel 2014, a Tobruk.

Già nei giorni scorsi alcune tribù sono riuscite ad ottenere per la loro peculiarità e per quanto riguarda il loro territorio lo spostamento della tornata elettorale al 2022, ma oggi anche il presidente del Comitato per le elezioni della Camera dei rappresentanti al-Hadi al-Saghir ha affermato in un intervento su February Tv Channel l’impossibilità di votare questo mese.

Nel frattempo si è andata stemperando la tensione che aveva visto tre giorni fa decine di mezzi militari della potente tribù di Misurata, guidati dal comandante Salah Badi, circondare i palazzi del potere a Tripoli, compreso quello della presidenza del Consiglio presidenziale: Badi, che è sottoposto a sanzioni Onu a seguito degli scontri a Tripoli, avrebbe “ufficialmente” agito a seguito dell’iniziativa di al-Menfi di sostituire il generale a capo della guarnigione di Tripoli, il controverso Abdul Basit Marwan accusato di aver avuto la mano pesante nella guerra contro Khalifa Haftar, nominando al suo posto il più moderato generale Abdel Qader Mansour; “realmente” ha chiesto anche lui il rinvio delle elezioni.

A tentare di tenere uniti il diavolo e l’acqua santa, semmai ve ne fosse ancora una goccia in Libia, è ora l’inviata speciale Onu Stephanie Wlliams, statunitense, che ha preso il posto in marzo dello slovacco Jan Kubis, durato neanche tre mesi: Williams, che è anche vicecapo dell’Unsmil, sta cercando di mettere insieme tavoli su tavoli, ma il suo credito appare molto debole proprio perché statunitense. Mansour infatti l’accusa di essere stata in silenzio quando Haftar aveva mosso il suo attacco su Tripoli, ma diversamente non poteva essere dal momento che la figura del generale “di Tobluk” è quantomeno controversa in quanto da sempre uomo della Casa Bianca, chiunque vi abiti. Tant’è che Haftar durante la guerra contro il Ciad del 1987, la cosiddetta “Guerra delle Toyota fu fatto prigioniero salvo poi essere prelevato dalla Cia e portato negli Usa fino al 2011, quando comparve per guidare la piazza di Bengasi contro Gheddafi.

Con passaporto statunitense in tasca, negli Usa abitava a Langley, ad un chilometro dalla sede della Cia, e persino per la sua offensiva del 4 aprile 2019 su Tripoli aveva ricevuto il via libera da Washington, con un Donald Trump che, secondo Bloomberg, aveva dato il suo ok via telefono.
Tra l’altro in questi giorni la brigata Tariq bin Zyad, di cui è ufficiale il figlio di Haftar, Saddam, ha bloccato una dozzina di suv nuovi della polizia diretti a Sheba, capoluogo del Fezzan, fatto che ha portato a scontri con almeno un morto e soprattutto all’invio da parte del generale Haftar di una brigata pronta ad attaccare le forze filo-tripoline della tribù locale.

Haftar è uno dei 98 candidati alla presidenza della Libia, ma tra i motivi per cui in molti chiedono il rinvio delle elezioni è per la presenza di un altro candidato alle elezioni, molto ingombrante e con le quotazioni in continua ascesa: si tratta di Saif al-Islam Gheddafi, figlio del defunto rais e inquisito dalla Corte penale internazionale. Tuttavia in una Libia dove il migliore ha la rogna, Gheddafi junior viene considerato da più parti l’uomo con maggiori possibilità di stabilizzare una volta per tutte il paese.

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