Tareq Al Amami, arrestato con altri tre giocatori libici nel 2015, racconta la sua verità dal carcere di Siracusa

Di Vanessa Tomassini.
“Ti sembro un criminale? Mi hanno accusato di essere un assassino e un trafficante di esseri umani. Io sono un calciatore, ho il passaporto, i documenti. Puoi parlare con il presidente della squadra con cui giocavo, al-Tahadi Benghazi. Da cinque anni sono in prigione, da cinque anni non posso vedere la mia famiglia in Libia”. A parlare, dalla Casa Circondariale di Siracusa, dove si trova dal 2015, è Tareq Al Amami, 26 anni, uno dei quattro giocatori libici condannati il 6 dicembre 2015 a 30 anni di reclusione. Tareq può utilizzare il telefono una volta a settimana, il venerdì, oggi ha deciso di sfruttare questa opportunità per gridare la sua innocenza. Sebbene non spetti a noi dire se Tareq è innocente o meno, a giudicare dal suo aspetto, Tareq sembra un bravo ragazzo, colpevole di aver lasciato il suo Paese, ma non ha sicuramente l’aspetto di un famigerato trafficante libico come riportato dai media. Dall’altra parte del telefono, in videochiamata, la sua famiglia: suo padre Giuma e i suoi fratelli. Sua sorella è felice di parlare con lui ed è contenta che ci siamo anche noi, dopo anni di silenzio sulla vicenda.

“Io non ho preso un euro per quel viaggio, non ho compiuto altri viaggi in Italia, come fanno a dire che sono un trafficante? Il capitano della barca era tunisino. Le loro accuse si basano soltanto sulla testimonianza di alcuni africani che ci hanno descritto come scafisti – afferma Tareq, raccontando che – nel 2015, c’era la guerra a Bengasi contro i terroristi. Era impossibile ottenere un visto”. Il papà ricorda che il piano del ragazzo era quello di andare a Tripoli e da lì viaggiare in Tunisia per chiedere il visto per la Germania. Poi, il confine chiuso, e l’idea di unirsi ai migranti che partivano da Zuwara verso le coste italiane, come accade anche oggi quotidianamente.
Tuttavia sulla stessa barca in cui viaggiavano Tareq, Alaa Faraj al-Maghribi del club Ahly Benghazi e Abdel-Rahman Abdel-Monsef del club libico Al Tahadi, e il giocatore Mohamed Essid di Tripoli, 49 migranti sono morti, secondo il racconto dei media che hanno seguito la vicenda. “Sono morti perché si trovavano sotto il motore, eravamo divisi per cercare di bilanciare la barca in balia delle onde in quel viaggio spaventoso. Non ricordo chi ci ha recuperati in mezzo al mare, erano dei militari e uno dei sopravvissuti ha accusato noi per il semplice fatto che siamo libici. Il testimone aveva anche litigato con un suo compaesano e aveva parlato col capitano della barca”. Aggiunge Tareq che in prigione ha imparato l’italiano, o meglio il dialetto siciliano.

Durante la nostra conversazione, ci scherziamo sù con suo papà, malgrado il dolore per la lontananza del figlio sia indescrivibile, e la situazione al limite del paradosso. Lo stesso dolore che oggi vivono le famiglie italiane di Mazara, preoccupate dalle telefonate dei loro cari che chiedono al Governo italiano di fare presto. La storia di Tareq infatti è tornata alla luce dopo che due pescherecci di Mazara Del Vallo, con diciotto marinai a bordo, sono stati fermati mentre si sarebbero trovati in acque libiche. Il papà di Tareq si è rivolto al Libyan National Army (LNA) per cercare di far tornare a casa suo figlio, vittima soltanto di aver inseguito i suoi sogni.
L’avvocato di Tareq Al Amami, Serena Romano, raggiunta al telefono, ci conferma che le imputazioni a carico del suo cliente “sono favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e omicidio volontario e che prove sono le dichiarazioni assunte nell’incidente probatorio da alcuni dei superstiti”. L’avvocatessa Romano precisa “che la prova del dichiarante straniero ė soggetta spesso a contaminazione a causa dei processi di traduzione e a fraintendimenti linguistici. Io non c’ero all’epoca perché sono subentrata adesso, ma si tratta di fenomeni ricorrenti che vanno monitorati e non so se in questo caso sia stato fatto perché non ho partecipato all’incidente probatorio”. È difficile immaginare cosa sia successo davvero su quella barca, in mare aperto per ore. Spesso anche sulle imbarcazioni delle ONG e della Guardia Costiera si genera il panico e sono stati tantissimi gli incidenti che hanno visto protagonisti i migranti partiti dalla Libia. Inoltre c’è un fattore sociale da non sottovalutare, le differenze tra i libici e i migranti africani che in Libia sono sottoposti a violenze inenarrabili, secondo i rapporti ONU.
Tareq e i suoi compagni si sono però già fatti 5 anni di carcere. “Si trovano in custodia cautelare ed è per questo che sono detenuti prima della sentenza definitiva. Si può fare quando si ritiene ci sia un verosimile rischio di fuga e con condanne elevate ė sempre cosi, a maggior ragione se l’imputato ė straniero e privo di legami sul territorio”. Spiega Romano, aggiungendo che “ė stata depositata la sentenza d’appello che ha confermato la condanna di primo grado e proporremo ricorso in cassazione… Io non c’ero neanche in appello”. Sulla possibilità che questi ragazzi, tutti giovanissimi, possano scontare la pena nel loro Paese, “le condizioni sono da verificare – ci dice – esiste una procedura con richiesta del Ministero di Giustizia, ma ci sono dei presupposti e va valutata caso per caso”. Il generale Khalifa Haftar starebbe negoziando lo scambio, i giocatori in cambio dei marinai. Su questo l’avvocato ci spiega che non ė tema processuale e non può rispondere.
“Due o tre anni fa – racconta Tareq – anche il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Fayez Al Serraj si era occupato della questione. Ora non è Haftar che giudicherà i pescatori italiani, ma i magistrati libici. I marinai rischiano 25 anni di carcere”. Secondo fonti militari di Bengasi, a bordo dei due pescherecci di Mazara, infatti, sarebbe stato rinvenuto un grosso quantitativo di hashish. Tra i 18 marinai ci sarebbero anche sei tunisini e un senegalese. Finora i canali ufficiali hanno rifiutato di commentare la vicenda e la Farnesina starebbe conducendo trattative anche con Mosca e Dubai.

“Sono stato io a chiedere all’esercito di intervenire, dopo che nel 2018 un altro peschereccio italiano era stato intercettato e sequestrato in acque libiche e poco dopo rilasciato, ma i nostri figli devono invece scontare la pena in Italia”. Ci dice Giuma, il papà di Tareq. La richiesta di riportare a casa i giocatori libici è una richiesta popolare. “Ho fatto cinque volte la foto con i diplomatici dell’ambasciata libica in Italia”, aggiunge Tareq. A settembre 2018, l’allora Vice Presidente del Consiglio di Presidenza della Libia, Fathi al-Majbri, ha discusso con l’ex presidente dell’Al-Ahly Benghazi Club, Khaled Al-Saeiti, il meccanismo di coordinamento con le autorità competenti per comunicare con il Governo italiano affinché i giocatori scontassero la pena in Libia. Nel 2019, le famiglie e gli amici dei ragazzi hanno protestato pacificamente a Bengasi, inoltrando una richiesta ufficiale alle autorità del Paese. Le stesse scene, le stesse richieste che si sollevano oggi in Italia per il rilascio dei nostri connazionali nelle prigioni di Haftar.